Ultime della sera: ”Storia di donna”

Donne: un cammino di storie

Redazione Prima Pagina Mazara
Redazione Prima Pagina Mazara
27 Novembre 2021 19:00
Ultime della sera: ”Storia di donna”

Dici che è troppo tardi? Che non sono più sul pezzo? In effetti è vero, la giornata con tutti i suoi riti e le sue celebrazioni, è passata. Ma credimi, il dolore non dura un giorno. E proprio perché è passata “la festa”, proprio perché ora c’è altro sulle confuse pagine del web, dove infiniti “copia-incolla” in quindici secondi hanno dichiarato lo sdegno per la violenza dell’uomo sulla donna, su panchine rosse ancora troppo spesso imbrattate, proprio in questo giorno di silenzio pieno di altri rumori, io voglio che si senta la mia voce.

Che fossi nata femmina, l’ho capito appena venuta al mondo. Il disappunto negli occhi di mio padre e la mortificazione in quelli di mia madre. Maschio dovevo nascere, che femmine sono solo spese e pensieri. E così ho fatto di tutto per essere la bambina più buona del mondo: giudiziosa, ubbidiente, silenziosa. Dopo due anni , finalmente, nacque mio fratello. Festa grande, e io tirai un sospiro di sollievo. A scuola, le elementari, mi piaceva andare. Ma mia madre stava male e io dovevo aiutare in casa e così, qualche volta non andavo. Leggevo i manifesti e scrivevo di nascosto, sulla carta del pane.

Che fossi nata femmina, l’ho capito pure quando la vicina di casa, solerte, mi disse che avrei avuto le mie cose e avrei avuto il sangue fra le gambe, il sangue del peccato. E io aspettavo con paura mentre sentivo il dolore al petto che cresceva.

E che fossi nata indubbiamente femmina, l’ho capito ancora di più quando il cugino di mio padre, venne a casa a chiedere ai miei genitori di permettermi di andare a dare una mano a sua moglie che aveva appena partorito e non ce la faceva con gli altri piccoli. I miei si guardarono e annuirono. Nessuno chiese a me se volessi farlo. lo seguii, con obbedienza. Non ci volle molto tempo a capire ancora di più che ero nata femmina: mise presto le sue mani fra le mie gambe e poi…poi devo essere svenuta ma il sangue fra le cosce, che scivolava piano fino ai piedi come le lacrime sul mio volto, era quello del suo peccato e non del mio, ma questo lo compresi dopo. Mi vergognai fino a sentire che sarei morta e questo speravo: che in quelle notti arrivasse la morte a darmi pace. Giunse invece la morte di mio padre e con quella, la necessità di lavorare.

E così capii ancora una volta, di essere nata femmina: mio fratello ed io andammo a lavorare a servizio da una famiglia benestante. Ci davano una miseria ma, di quella miseria, a me ne spettava ancora meno. Come se le mie mani spaccate dal sapone e dall’acqua fredda, e le ginocchia lacerate, e i polmoni pieni del fumo della cucina a legna, valessero meno della schiena spezzata di mio fratello. E sentivo in me crescere l’indignazione: con ogni vescica, cresceva la febbre dell’ingiustizia. Ci rimasi per tanti anni, imparavo i segreti, origliavo da dietro le porte.

Da qualche parte era finita la guerra, la mia non aveva un attimo di tregua.

A casa dei signori, arrivavano ogni tanto degli ospiti eleganti e colti e anche qualche signora in abiti moderni. Parlavano infervoriti. Era il 1946, si sarebbe votato e lo avrebbero fatto anche le donne. Le donne, io ero solo femmina e per giunta mal vestita. Mi feci coraggio e chiesi ad una di quelle che arrivava dalla città e indossava un grazioso cappellino, di spiegarmi qualcosa di più. Avevo letto storie di eroi e libri di geografia, nello studio del padrone, ma quella lezione mi aprì la mente. La storia la scrivono i vincitori e i vincitori sono maschi, pensai: per questo non trovo neanche un libro scritto da una donna.

Io votai, scappando al controllo di mio fratello e di tutti i miei parenti. Indossai scarpe e vestito che la signora mi aveva regalato. E votai. La matita fra le dita spaccate, mi sembrò il più bel diamante che mai avessi potuto indossare.

Che ero nata femmina, lo avevo capito dal momento in cui venni al mondo, ma che ero diventata donna, lo capii quel giorno. Ne ho viste da allora ancora tante di violenze e di ingiustizie, di bambine crocifisse al legno dell’ignoranza e del sopruso, inchiodate alle tavole della brutalità e della arroganza. Ne ho viste di madri scannate come vittime sacrificali sull’altare di dei falsi e bugiardi, di donne bruciate come streghe dalle vampe della prepotenza e dell’istinto di possesso, di figlie immolate come agnelli per placare la sete della più profonda codardia, ma, ragazza mia, questi occhi ormai liquidi, io non li ho mai chiusi.

Non avere paura, non vivere sulla terra come se qualcuno dovesse concederti il permesso di soggiorno, non respirare come se ti fosse concessa perfino l’aria. Fin qui ho spinto i miei piedi stanchi, perché i tuoi potessero andare avanti. Non permettere a nessuno di farti del male. E, soprattutto, cammina insieme ad altre donne: a farla insieme la strada, diventa più lieve. Se una cade, le altre la sostengono. E spiegalo al mondo cosa è l’amore. Sii felice ragazza mia, felicemente femmina, felicemente donna.

di Maria LISMA

La rubrica “Le ultime della sera” è a cura della Redazione Amici di Penna.

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